I tedeschi, l'euro, la crescita e noi

Dal G20 poche novità, resiste l'ordoliberalismo. Che fare?
17 Novembre 2014 - 10:45
Ludwig Erhard, ministro dell'Economia tedesco della ricostruzione

Nonostante i proclami di facciata, le cronache dicono che il G20 in Australia non ha prodotto grandi svolte: Obama, insomma, non ha convinto la Merkel ad allentare la presa (come poteva, d'altronde, dopo la sconfitta elettorale?) e al massimo si parla di una limitata apertura tedesca ai correttivi d'emergenza proposti da Mario Draghi. Davanti al Parlamento Ue, il governatore della Bce ha annunciato che la Bce è pronta a comprare titoli di Stato.

Con un articolo di Wolfgang Munchau, il Financial Times spiega perché, nonostante la recessione dell'area euro peggiori, la Germania non intenda minimamente cambiare strada: il rispetto delle regole deve essere rigoroso, la crescita non si finanzia con il debito ma con i conti a posto e così via.

Munchau spiega che questa cultura del rigore è figlia di una teoria economica, l'ordoliberalismo, nata in Germania come reazione ai disastri della politica inflazionistica degli anni Venti e Trenta del '900. Secondo questa posizione, in estrema sintesi, la condizione della economia sociale di mercato (l'economia di mercato attenta a limitare le diseguaglianze e capace di far partecipare, per esempio, i lavoratori alla vita dell'impresa, orientamenti tipici del cosidetto capitalismo renano di cui Michel Albert aveva parlato in Capitalismo contro capitalismo) è che lo Stato faccia rispettare le regole. E le rispetti a sua volta in modo rigoroso.

Fin qui, difficile dare torto ai tedeschi, visto che dopo la Seconda Guerra mondiale l'adozione di questa politica economica di ispirazione liberale (ma non reazionaria) da parte del ministro dell'Economia tedesco Ludwig Erhard è stata considerata alla base del miracolo economico tedesco: Munchau stesso lo riconosce pur esprimendo dubbi sul peso decisivo dell'ordoliberalismo rispetto ad altri fattori (tecnologia, competenze tecniche, imprese eccellenti). Il problema è che con l'adozione dell'euro, gli altri Paesi europei hanno sì incamerato i vantaggi di una moneta forte perché ancorata all'economia tedesca, ma hanno anche legato il loro destino economico a una filosofia economica che va benissimo per la Germania, ma che non pare funzionare allo stesso modo per gli altri.

I tedeschi sostengono che questo è accaduto perché, appunto, gli altri Paesi non hanno rispettato gli impegni e sono stati lassisti. In parte hanno ragione. In fondo l'analisi degli andamenti del Pil dal 2000 a oggi in Europa pubblicata da Il Sole-24Ore, rivela che, ad esempio, anche quando le vacche erano grasse noi italiani abbiamo sprecato risorse in spesa improduttiva e siamo stati incapaci di alimentare la crescita in modo vigoroso, o almeno di mettere a posto i nostri conti.

Ma i tedeschi dimenticano a) che in alcuni casi anche la Germania (insieme alla Francia) non ha rispettato le rigide regole di Maastricht e b) che dopo l'esplosione della crisi (2008) il rifiuto di qualsiasi politica keynesiana di sostegno alla crescita nei Paesi più in difficoltà si è rivelata una strategia fallimentare e persino il Fondo Monetario Internazionale sta ora invocando maggiori investimenti.

Munchau, nel suo articolo, spiega che la resistenza dei tedeschi è dovuta alla rigida ortodossia culturale che accomuna, a Berlino, centro-destra e centro-sinistra, a cui però egli oppone tre importanti obiezioni: l'ordoliberalismo 1) manca di soluzioni da adottare in caso di "grande depressione", 2) è monetarista, posizione ormai fuori tempo, ma soprattutto 3), pur dimostratosi adatto a un singolo Paese come la Germania, non è affatto chiaro se possa funzionare anche in un contesto allargato come l'Eurozona.

Inoltre, si può osservare che i tedeschi dimenticano che il capitalismo renano, nel tempo, si è orientato verso un modello sempre più liberale da punto di vista finanziario, pur mantenendo i suoi criteri base rispetto alle politiche dello Stato. E questo ne ha accentuato i tratti di incoerenza.

Resta il fatto che dire di no alla filosofia economica dominante tra Berlino e Bruxelles non è facile. Nelle recenti trattive con la Commissione Ue, alla Francia è stato concesso poco, all'Italia ancora meno. L'opzione di ribellarsi e uscire dall'euro, o quantomeno non rispettare le regole per un periodo senza avere l'avvallo dei partner europei, oltre a essere opzioni giuridicamente complesse (per la rilevanza costituzionale degli impegni internazionali verso l'Europa, nonostante la Corte Costituzionale italiana abbia recentemente ribadito che anche i trattati devono rispettare i principi intangibili della Costituzione) ci esporrebbero all'offensiva della speculazione internazionale, senza poter contare sulla assistenza della Bce. Oltre a farci perdere il vantaggio che una moneta robusta ci assicura in termini di interessi sul debito. 

Come se ne esce, allora? Trattando con tedeschi e con gli altri partner europei, evidentemente. E visto che non si può obbligarli, bisogna convincerli. Tra l'altro senza perdere tempo, perché l'impoverimento e la disoccupazione rischiano di schiantarci. Occorre dunque che i Paesi con maggiore necessità di una nuova politica della crescita trovino innanzitutto un accordo tra loro, per parlare alla Germania con una voce sola, decidendo cosa mettere sul piatto, nel dialogo con Berlino. Non sarà facile, ma non c'è alternativa: se si vuole mettere da parte il fallimentare ordoliberalismo va abbandonato il rivendicazionismo nazionale.

Sarà un caso, ma anche il governo Renzi, dopo quelli di Berlusconi, Monti e Letta, è di fronte allo stesso problema: non riesce a trattare con la Germania risultando credibile. Alla fine per i tedeschi contano i numeri, non quanto sei simpatico. Avere dei compagni di strada (e fare massa critica) è dunque essenziale. Purtroppo la "democrazia del pubblico" (descritta da Bernard Manin nel suo Principi del governo rappresentativo) ci ha abituati male: agli elettori piacciono le soluzioni miracolistiche a basso costo, che spesso non ci sono, ma che tutti i leader nazionali si affannano a proporre per avere il favore del proprio elettorato. E così si lascia alle tecnocrazie, che non hanno un elettorato nazionale a cui rispondere, il compito di gestire la vera partita.

La politica dei Paesi europei, insomma, deve cercare una via comune, tessendo intese plurali, in cui nessuno, alla fine, possa dire di aver stravinto. Questo vale se si vuole una nuova Europa, più democratica e forte, superando le resistenze di molte lobby economiche nazionali. Ma varrebbe persino nel caso di un divorzio, con l'addio all'euro, che avrebbe costi probabilmente più pesanti: anche se ci si vuole lasciare, non si può che cercare di uscirne con il minor danno e trovando una intesa.

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