L'8 gennaio, sul Financial Times, è apparso un articolo di Gideon Rachman intitolato Why investors are ignoring war, terror and turmoil. In quelle righe, l'ex capo della redazione esteri del quotidiano inglese, uno dei più considerati esperti di politica internazionale e blogger abituale del FT, racconta un episodio: alla fine di una conferenza di fronte a una platea di grandi investitori in cui aveva esposto per sommi capi i nodi di una situazione internazionale davvero ingarbugliata (tensioni con la Russia, in Medio Oriente, nel Mar cinese meridionale, nell'Eurozona), prendendo un caffè con uno degli altri speaker, un investitore di un fondo di private equity, alla domanda su quanto si preoccupasse del quadro geopolitico, si è sentito rispondere: “Quasi per niente. Noi guardiamo alle compagnie, ai flussi di cassa e agli stessi investimenti”.
Non è certo una novità. Anzi, come osserva lo stesso Rachman, che il terrorismo o le migrazioni possano essere bellamente ignorate dalle borse è un fatto. I record toccati dagli indici alla fine del 2015 ne sono una prova.
Secondo Rachman, c’è un’altra spiegazione oltre a quella della scarsa lungimiranza dei mercati. In pratica, si può parlare di una sorta di lungimiranza selettiva: i mercati sono capaci di vedere le opportunità, mentre tendono a ignorare i rischi. In pratica, dagli anni ‘70 in poi, chiusa la stagione dello choc petrolifero e della rivoluzione iraniana, i rischi politici hanno condizionato via via sempre di meno le scelte degli investitori, mentre hanno pesato sempre di più le opportunità economiche che si aprivano.
È una tesi interessante, che la si condivida o meno, perché è basata su una osservazione di fatto. Negli anni, il peso negativo di guerre e crisi internazionali sui mercati degli investimenti si è ridotto, mentre è cresciuto l’interesse per le nuove possibilità di fare affari: dall’Iraq alla Cina, per le borse la storia internazionale degli ultimi decenni è ricca soprattutto di occasioni di business.
Non è una tendenza rincuorante, tuttavia. Innanzitutto perché si accompagna al sempre più ampio distacco tra i mercati e l’economia reale e persino dalla democrazia o dai diritti delle persone.
Ma c’è anche un’altra ragione. L’impressione è infatti che la macchina della finanza internazionale, oltre a essere sempre più lontana dalla dinamica del mondo reale, non si possa più fermare e abbia bisogno di macinare crescita, a qualsiasi prezzo. Perché se la borsa cresce l’economia reale non migliora necessariamente. Ma se calano gli investimenti l’economia peggiora di sicuro. Siamo al traino dei corsari della finanza: la loro navigazione senza bussola ci porta alla deriva, il loro rallentamento ci consegna agli squali.
Alla fine di una settimana segnata dal calo sotto i 30 dollari al barile del prezzo del petrolio e dalle previsioni di alcune banche d’affari di un ulteriore calo fino a sotto quota venti dollari, a Wall Street solo l’affermazione del presidente della Federal Reserve di Saint Louis James Bullard secondo cui proprio il calo del petrolio avrebbe potuto provocare un rallentamento della politica di rialzo dei tassi ha provocato una fugace euforia dopo il pessimo avvio di inizio anno causato dalla crisi della borsa cinese. Ma venerdì 15 gennaio i cattivi auspici per il futuro delle borse cinesi hanno riportato New York, Londra, Francoforte, Parigi e Milano sulle vendite. E il quadro è sempre più nero.
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